[OltreRocciamelone] - Murales & Co.




Cari OReaders, questa settimana il nostro spazio dedicato alle forme di espressione "di strada" ha un ospite d'eccezione. Si chiama BR1, ha 26 anni ed è già un affermato street artist.
Il suo lavoro consiste essenzialmente nel creare manifesti e poster che poi vengono collocati sui muri delle città, in particolare nei luoghi più fatiscenti. Lo scopo di BR1 è quello di contribuire alla riqualificazione estetica di queste aree, ma anche proporre profonde riflessioni su temi sociali importanti. Centrale nell'opera di BR1 è la figura della donna musulmana.
Il poster nella foto sarà esposto fino al 2 giugno all mostra "Made in Turin" (vedi agenda OR) a Palazzo Birago, Via Carlo Alberto 16.


Murales & Co. è lo spazio che OR dedica alle forme di espressione murale. Se vedi scritte o murales belli, curiosi, che ti colpiscono, fai una foto e mandala insieme all'indirizzo e al tuo nome o al tuo nick all' email: oltrerocciamelone@yahoo.it

[OltreRocciamelone] - Memorial Stellina 2010

Importanti novità caratterizzeranno l’edizione 2010 del “Memorial Partigiani Stellina Valsusa”, la corsa in montagna internazionale che dal 1989 chiama l’Italia e il mondo a ricordare i valori della Resistenza e a condividere un momento di sano spirito sportivo nella bella cornice della nostra Valle.

Giunta alla sua ventiduesima edizione, la Stellina fa parte delle gare “top” della Fidal (Federazione Italiana Atletica Leggera) ed è la prima corsa in montagna al mondo ad aver ricevuto il patrocinio della IAAF (Intenational Association of Athletics Federations). E non è tutto. Quest’anno non solo la Stellina manterrà il suo status di competizione internazionale, ma sarà anche la prova finale del Campionato Italiano Assoluto, terzo e conclusivo atto verso l’assegnazione dei titoli nazionali 2010.

Questa competizione, oggi famosa a livello mondiale, è nata per celebrare la battaglia delle Grange Sevine. Il 26 agosto 1944, in una conca sotto il Rocciamelone, i partigiani della Formazione Stellina, guidati dal filatelista Giulio Bolaffi, alias Comandante Laghi, riuscirono a sconfiggere ben due compagnie di SS. Ancora oggi la manifestazione ripercorre gli storici sentieri calcati dai partigiani.

La competizione si svolgerà come da tradizione su percorsi di sola salita, e quest’anno toccherà per la prima volta anche per la parte agonistica i comuni di Venaus e Novalesa, oltre che Susa e Mompantero.

Le gare saranno suddivise in due giorni. Sabato 21 agosto correranno le categorie donne (da Panere a Bar Cenisio) e juniores maschile e femminile (da Novalesa a Bar Cenisio). La categoria seniores maschile correrà invece domenica 22 agosto e quest’anno partirà da uno dei siti più significativi del territorio, l’Arco di Augusto a Susa, per giungere fino a Costa Rossa, dove verrà celebrata la messa e avrà luogo una manifestazione partigiana. Ciascuna giornata sportiva si concluderà con le cerimonie di premiazione al castello Marchesa Adelaide a Susa.

Sono in corso di organizzazione molte attività che arricchiranno la manifestazione, tra cui una “Giornata dello sport” volta a valorizzare le attività e le associazioni sportive locali, ma anche una mostra fotografica su questi 22 anni di Stellina. Verranno inoltre presentati un documentario realizzato dall’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza proprio sulla battaglia delle Grange Sevine e una nuova edizione, curata da don Gian Piero Piardi e da Stella Bolaffi Benuzzi, del libro “Un partigiano ribelle” che si avvale di testimonianze dirette di partigiani e dei diari del Comandante Laghi per raccontare una pagina della storia della Resistenza in Val di Susa.

Articolo di Jenny Cuk pubblicato su Luna Nuova, n. 36 del 2010.
Foto da asfalchi.it [qui]
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[OltreRocciamelone] - Val Gravio: 90 anni del GEAT

Domenica 23 maggio 200 persone si sono riunite al rifugio Val Gravio, in Val di Susa (To), per festeggiare il novantesimo anniversario del GEAT.

Sotto un bel sole, nel verde e nel profumo della primavera avanzata che si respira solo in montagna, la giornata è trascorsa tra canti, danze, ricordi e speranze per il futuro.

Il GEAT (Gruppo Escursionisti Accademici Torinesi) fu fondato a Torino nel 1920 da un gruppo di giovani appassionati di montagna. Questi amici, che volevano dimenticare gli anni lugubri della Prima Guerra Mondiale e lo squallore del dopoguerra, compresero che la montagna, nonostante le difficoltà che pone a chi vuole viverla, può regalare, attraverso quella fatica pulita, che nobilita lo spirito, il piacere di una vita sana, della condivisione e della riscoperta della natura.

La loro iniziativa ebbe grande successo: nel 1925 il GEAT contava 300 soci, e cominciò a costruire il rifugio Val Gravio, a 1390 m, su un terreno donato dal comune di San Giorio. Nel 1929 il rifugio fu inaugurato e il GEAT divenne sottosezione del CAI (Club Alpino Italiano). Col tempo il gruppo torinese toccò i 400 soci, effettuò numerose prime ascensioni e costruì anche un altro rifugio e tre bivacchi in varie zone delle Alpi piemontesi e valdostane.

Fra Dante celebra la Messa, cantata dal Coro
Edelweiss. Fra Dante, di Pinerolo,
 è un frate cappuccino e si iscrisse al GEAT nel 1964,
ancora prima di prendere i voti.
Dopo la messa, celebrata da fra Dante, il Presidente del GEAT, Gianfranco Rapetta ha salutato i presenti, in particolare i tanti bambini, “arrivati sino qui in rappresentanza del futuro”, e poi ha rievocato la storia del gruppo, fatta anche di pagine dolorose.
Il Presidente ha ricordato i soci scomparsi per incidenti in montagna, ai quali è dedicato un pilone vicino al rifugio, e i tristi fatti avvenuti durante la Seconda Guerra Mondiale, quando il rifugio Val Gravio fu distrutto. Sono stati ricordati anche i 5 giovani partigiani che in quel luogo persero la vita il 12 maggio 1944, torturati e uccisi dai nazifascisti: Valerio Martoglio, Giuseppe Staorengo, Aurelio Delmartino, Vincenzo Governato, Pietro Morello.

Il Presidente ha ricordato anche come il gruppo seppe rialzarsi dopo la guerra, come ricostruì il rifugio, sotto la guida energica di Eugenio Pocchiola e l’entusiasmo che spinse per tanti anni i soci a occuparsi personalmente, a turno, della gestione del rifugio, portando a spalle o a dorso di mulo le derrate e preparando le pietanze per i viandanti.
Il sindaco di San Giorio, Danilo Bar, ha sottolineato l’importanza di iniziative che promuovono la cura della montagna, valorizzando un prezioso patrimonio naturalistico e creando nuovi posti di lavoro.

Era presente anche il gruppo CAI di Bizzarone (Co), che, unito al GEAT da un legame di forte amicizia, ha collaborato ai recenti lavori di ampliamento del rifugio Val Gravio, che oggi rientra nel territorio del Parco Orsiera Rocciavrè.

Il signor Walter suona la ghironda,
strumento tipico di montagna
Il coro Edelweiss, coro ufficiale del CAI Torino, ha eseguito un repertorio di canti popolari e di montagna, tra cui l’immancabile “Montanara”. Il coro quest’anno compie 60 anni, ha alle spalle una storia fatta di centinaia di concerti, trasferte, dischi e cd, ma vuole anche guardare al futuro, ed apre le porte ai giovani che vogliano unirsi a loro. Dopo svariati bis eseguiti a grande richiesta di pubblico, sono seguite le musiche suonate da un insolito terzetto di violino, fisarmonica e ghironda, sulle quali i presenti hanno danzato i balli tradizionali delle montagne.

Si è conclusa così una giornata ricca di emozioni, trascorsa nell’abbraccio di una natura amica, all’insegna dell’”appartenenza”, che come recita la canzone di Giorgio Gaber, citata dal Presidente Rapetta, “non è un insieme casuale di persone, non è un’apparente aggregazione, l’appartenenza è avere gli altri dentro di sé”.
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[OltreRocciamelone] - La Montanara

La Montanara è uno dei canti popolari più famosi tra le Alpi. Fu composto da R. Ortelli al Pian della Mussa, in alta valle di Lanzo (To), nel 1927.
Ecco dunque un cult della musica di montagna eseguito dal Coro Alpi Cozie:


OR dedica questo video a tutti quelli che ancora non conoscono questa canzone, con l'augurio che possano scoprire un mondo che forse fa parte di loro, a tutti coloro che la conoscono, con l'augurio che guradandolo possano rivivere i loro ricordi, e a tutti quelli che hanno ancora voglia di sognare.

[OltreRocciamelone] - Coro Alpi Cozie: 50 anni di musica

Da cinquant’anni il Coro Alpi Cozie canta la bellezza delle montagne, di un mondo fatto di piccole cose semplici e di grandi meraviglie, di posti e di persone che sono le nostre radici, la nostra casa.


Il coro ebbe origine nel 1960 da un gruppetto di ragazzi che usavano ritrovarsi la sera nelle vie di Susa e sotto l’Arco di Augusto per cantare i canti tradizionali di montagna.

Si chiamavano Ezio Prevot, Giovanni Borello, Luigi Chiapusso, Pier Tomaso Foglia, Renato Lunardi, Gianfranco Prato, Giovanni Uvire, e la loro passione ben presto li spinse a formare un coro a quattro voci e a cercare un insegnante, un direttore che potesse aiutarli a coltivare il loro talento naturale, amalgamando l’entusiasmo e la vitalità giovanile con la tecnica musicale.

Trovarono il loro primo maestro in padre Tarcisio Raimondi, un giovane frate francescano che in quell’inverno del 1960 era da poco giunto a Susa. A quel punto, era necessario trovare un nome per il coro, che esprimesse la sua identità culturale e il suo inscindibile legame con i luoghi con cui il cuore dei ragazzi risuonava naturalmente. Non fu difficile: nel momento della riflessione, alla ricerca di un’idea, si guardarono attorno: sollevando lo sguardo i loro occhi furono colmi della vista delle loro montagne, fonte di ispirazione dei loro canti. Quando Luigi Chiapusso disse ad alta voce “Alpi Cozie!”, i ragazzi si accorsero che questo nome si accordava perfettamente al loro animo.

Nel giro di pochi mesi, i coristi divennero una ventina, poi arrivarono a 40.

Il 22 maggio 1960 fu una data storica: il coro tenne il suo primo concerto, in occasione della festa dell’olmo a Villar Pellice. La crescita artistica e il successo del gruppo fu da subito straordinaria: già nel 1961 fu inciso il loro primo disco, “Canti di montagna”, seguito a pochi mesi di distanza da un secondo disco. Lo stesso anno il coro si esibì a Torino in occasione del centenario dell’Unità d’Italia.

Negli anni successivi i concerti si moltiplicarono. Nel 1963, il cronista Romano Telmon scrisse sulla Gazzetta del Popolo: “Cantavano felici di riabbracciarsi con lo spirito alla care boscaglie ed i ghiacciai, dovunque poté spargersi, un giorno, la loro voce festosa. Cantavano e mi pareva che con l’anima vibrassero fino alle stelle e che nell’oblio della canzone facessero rinunzia di essi stessi per conquistarsi in amore”.

Nel 1964, padre Tarcisio, che tanto aveva fatto per quei ragazzi, dovette lasciare la Valle e la direzione del coro. Oggi vive a Genova, ma ricorda ancora con affetto il coro, che descrive come “una meravigliosa Stella Alpina raccolta ai piedi della Madonna del Rocciamelone e con passione seguita nel mio giovane cammino sacerdotale francescano a Susa”.

Per qualche anno la guida divenne Giovanni Uvire, finché il coro non incontrò un altro personaggio che sarebbe stato fondamentale nella sua storia: don Walter Mori. Giovane sacerdote da poco tornato da una missione in Brasile e gran conoscitore della musica, don Mori prese le redini del gruppo e contribuì in modo determinante alla crescita artistica e all’ampliamento del repertorio: ai canti i montagna si affiancarono quelli del folklore regionale, italiano e poi del mondo. Don Mori cercò la collaborazione di grandi esperti, di maestri e di compositori come Alfio Inselmini, Andrea Gallo e Roberto Hazon che resero il repertorio del coro veramente unico e di grande qualità.

Nel 2008 a don Mori è subentrato un altro giovane maestro: Mariano Martina, diplomato al Conservatorio di Torino in Composizione, Musica corale e Direzione di coro, che già da tempo era membro del coro Alpi Cozie.

In occasione del cinquantesimo, il coro sta incidendo un CD che uscirà a fine estate e che comprenderà, oltre a brani della tradizione popolare e alpina (come Sul Ponte di Perati, già presente sul primo disco “Canti di montagna”), buona parte dei brani nuovi imparati in questi ultimi anni. Ci saranno brani mai incisi prima dal coro, come Stelutis alpinis, poi 2 brani appositamente creati da compositori amici per il cinquantesimo, un lied per coro maschile di Franz Schubert in lingua originale e qualche elaborazione di famose canzoni di musica leggera

In questi cinquant’anni il coro ha percorso ben 250000 kilometri per portare la sua musica nel mondo. Oltre che in Piemonte e in Italia, ha dato concerti in Francia, Svizzera, Germania, Polonia, Belgio, Ungheria, Austria, Lussemburgo, Olanda, Svezia, Lettonia, Stati Uniti, Brasile, Argentina, Uruguay, Canada, Unione Sovietica, Bosnia e Giappone.

Inoltre, i coristi sono stati ricevuti e ascoltati da Sandro Pertini, da papa Paolo VI e da papa Giovanni Paolo II. Hanno partecipato a numerosi festival, hanno riscosso successo e simpatia in alcune delle più importanti piazze (come piazza Navona, a Roma) e chiese (come la cattedrale di Budapest) e in innumerevoli paesini sparsi nel mondo, portano ovunque lo stesso entusiasmo e lo stesso buonumore. Hanno raggiunto la quota dei 1800 concerti e non hanno nessuna intenzione di fermarsi, anzi sperano che i giovani di oggi riscoprano la bellezza della musica tradizionale e di montagna, perchè un importante patrimonio culturale e musicale, ma soprattutto umano, non vada mai perduto.

Oltre ai concerti ufficiali, fanno parte della storia di questo coro straordinario anche quelli improvvisati, nati da una spontanea esplosione di gioia di vivere, per il piacere e lo stupore di un pubblico occasionale: memorabile quello tenuto durante il volo per New York, o quello improvvisato fuori da un albergo dall’altra parte del globo per un unico spettatore, un valsusino emigrato da tanto tempo, giunto con rammarico troppo tardi per l’esibizione del coro.

Le parole che meglio esprimono lo spirito di questo straordinario coro di cui la Val di Susa è giustamente orgogliosa sono quelle che uno dei fondatori e maestri, Giovanni Uvire, scrisse tanto tempo fa in un suo quadernetto: “Siamo lieti di avere splendidi boschi, pascoli e rocce, fiori meravigliosi per colore e per grazia, e nebbie, nevi e ghiacciai. E come dai ghiacciai nascono i torrenti, fonti di vita per le valli e le pianure, nell’uomo che si innalza al di sopra delle sue preoccupazioni quotidiane nasce una nuova vita, l’uomo si trasforma e canta felice perché è il canto e il suo linguaggio sia esso triste o lieto. Ci siamo cercati, ci siamo trovati ed abbiamo formato un Coro per poterci parlare nel nostro linguaggio preferito, con l’intento di estendere al mondo intero quei magnifici canti che altri prima di noi hanno sentito, hanno cantato...”.

Nel prossimo post potrete ascoltare un canto eseguito dal Coro Alpi Cozie.

Articolo di Jenny Cuk pubblicato su Luna Nuova n. 36 anno 2010

[OltreRocciamelone] - Murales & Co.

Torino, Via Guastalla

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[OltreRocciamelone] - Il Sentiero dei Franchi

REPORTAGE: TRENT'ANNI SUL SENTIERO DEI FRANCHI
Passato, presente e futuro di uno dei tracciati più importanti della val di Susa

Il Sentiero dei Franchi è un tracciato lungo circa 60 km che percorre in quota la Val di Susa sulla destra orografica della Dora Riparia.
Si snoda tra Oulx e Sant’Ambrogio e collega cinque importanti centri spirituali: l’abbadia di Oulx, la certosa della Losa, la certosa di Monte Benedetto, la certosa di Banda e la sacra di San Michele.

Nato nel 1980 e curato fino a circa 10 anni fa dal Comitato per la Promozione del Sentiero dei Franchi, oggi rientra in gran parte nel territorio dei parchi Orsiera Rocciavrè e Gran Bosco.

Quest’anno il sentiero compie 30 anni. In quest’occasione bisogna cercare una risposta ad alcuni interrogativi molto importanti: in che condizioni si trova oggi il sentiero? Come ha avuto origine? Qual è il suo ruolo nell’economia del sistema dei sentieri della Valle? Qual è il suo effettivo peso storico?

Le condizioni

Per rispondere a queste domande, il primo passo è stato quello di percorrerne un tratto, nella fattispecie quello che collega Le Assiere (Meana) con Menolzio (Mattie). È emerso subito che il sentiero non si trova affatto in buone condizioni. Necessiterebbe di manutenzione e del rifacimento della segnaletica, a volte molto deteriorata, a volte del tutto assente, a volte fuorviante.

Il viandante si ritrova, in parecchi tratti del Sentiero dei Franchi, a percorrere una via spesso disagevole e, soprattutto se non è del posto e non ha una buona cartina, rischia molto facilmente di perdersi. Come mai questo sentiero tanto importante e famoso versa in queste condizioni? Per capirlo è necessario fare un passo indietro, fino alle sue origini.

Le origini

Cesare Olivero Pistoletto, presidente del comitato per la promozione del Sentiero dei Franchi, spiega: “Il Sentiero dei Franchi è nato su iniziativa della Pro loco di Gravere, di cui ero presidente, e della Pro loco di Meana. All’insaputa l’una dell’altra, orientati alla salvaguardia dell’ambiente, abbiamo programmato il ripristino dei sentieri che collegavano in quota Gravere con Meana”. In quel periodo si cominciò a pensare che il sentiero che collega in quota Gravere con Meana era quello usato anticamente dai monaci per raggiungere i cinque edifici religiosi tra Oulx e la sacra di San Michele, poi si cominciò a parlare del fatto che fu la stessa via percorsa da Carlo Magno e la sua armata nell’VIII secolo per andare a sconfiggere i Longobardi che si trovavano alla Chiusa.

Olivero Pistoletto spiega che col tempo l’attività per il ripristino del sentiero coinvolse più personalità e venne fondato il comitato, in cui c’era anche un rappresentante per ognuno dei 14 comuni toccati dal sentiero. In particolare, per quanto riguarda la parte storica, Mons. Severino Savi, allora presidente di Segusium, e il Prof. Giuseppe Ferrero di Novalesa condussero studi storici, e stabilirono che i primi a passare per il sentiero furono i Franchi, da qui l’origine del nome imposto al sentiero.

“I Franchi hanno soggiornato alla Chiusa per 36 anni e usavano i sentieri sulla destra orografica della Dora Riparia in quota, perchè più in basso era paludoso”, aggiunge Olivero Pistoletto.
In realtà, ancora oggi esistono vari dubbi e teorie sulla storia del sentiero: alcuni non credono che i Franchi passarono veramente di lì, altri ritengono che fosse una via usata soprattutto dai monaci e/o da astuti commercianti che cercavano di evadere le gabelle.

Sicuramente, si tratta di un cammino storico, ricco di flora e fauna e di paesaggi mozzafiato, che attirava turisti anche da molto lontano, premiando così gli sforzi dei membri del comitato. Il Cav. Olivero Pistoletto racconta: “Abbiamo lavorato per due anni il sabato e la domenica per riaprire questo sentiero, con la collaborazione del Consorzio Forestale dell’Alta Valsusa”. Venivano organizzate giornate di sensibilizzazione ecologica che coinvolgevano i volontari e le scuole.

Oggi gran parte del sentiero fa parte dei parchi, e in questi tratti il comitato non può più intervenire, mentre compie ancora sporadiche azioni di volontariato nelle zone che rimangono al di fuori dei due parchi.

Problemi e soluzioni

Come si può evitare che il sentiero dei Franchi si perda?

Elio Giuliano, guardia parco dell’Orsiera-Rocciavré, spiega che esiste un PSR (Programma di Sviluppo Rurale) per i sentieri, cioè dei fondi per il restauro dei sentieri: il parco Orsiera ha presentato alla Provincia una serie di proposte, tra cui una relativa al Sentiero dei Franchi, ma la Provincia ha deciso di finanziare il Giro dell’Orsiera e i sentieri collegati. In realtà molti tratti dei due percorsi coincidono, per cui la maggior parte della sezione del Sentiero dei Franchi tra dalle Assiere a Pian dell’Orso verrà rimessa in sesto a livello di manutenzione e segnaletica. Rimarranno fuori dall’intervento i tratti che vanno dalle Assiere verso Madonna della Losa e da Pian Dell’Orso verso la sacra di San Michele, perchè non fanno parte del parco.

Il primo grande problema, dunque, è proprio la manutenzione. Innanzitutto, i parchi stessi possono avere difficoltà nel trovare i fondi necessari al ripristino dei sentieri. Poi ci sono i tratti che non rientrano in nessun parco: chi dovrebbe occuparsene? “E’ un mistero” risponde Giuliano “perchè non esiste un ente preposto ai sentieri e generalmente i comuni non hanno le risorse necessarie per occuparsene. A volte ci sono degli interventi pubblici, ma sono a singhiozzo, nel senso che a volte arrivano dei soldi, si interviene per alcuni anni e poi non si interviene più. E questo è un grosso problema perchè alla fine, di fatto, i sentieri spariscono”. Un altro problema del Sentiero dei Franchi è che adesso, con la nuova normativa regionale, è stato istituito un catasto dei sentieri. Solo i sentieri che rientrano in questo catasto regionale possono essere finanziati con soldi pubblici: “Ogni tratto di sentiero ha un numero, quindi, come tutti gli altri, il Sentiero dei Franchi non ha un numero solo, ma una dozzina di numeri. Ciò che fa fede sono i singoli numeri, e non che il Sentiero dei Franchi sia un unico tracciato”. Quindi diventa difficile che il Sentiero dei Franchi possa essere oggetto di un intervento di manutenzione unitario e specifico.

Inoltre, la segnalazione di un sentiero è un lavoro lungo, che deve essere fatto da esperti: calcolando i tempi di avvicinamento, si può stimare che per un’ora di cammino ci vuole una giornata di lavoro.

Un altro problema, secondo Giuliano, è legato ai posti-tappa. Il sentiero ne prevede tre: Oulx - Frais, Frais – Gravio, Gravio – Sacra di San Michele. Le tappe, dice il guardia parco, sono troppo lunghe, possono essere adatte a persone molto sportive, ma non alle famiglie: “mancano posti dove fermarsi lungo il percorso”.

Eppure il Sentiero dei Franchi è importante per il parco: “Nel tratto tra Pra La Grangia e il Rifugio Valgravio il Sentiero dei Franchi coincide grossomodo con i confini del parco. È molto utile per i collegamenti: permette molti percorsi ad anello”.

Una possibile soluzione per la salvaguardia del Sentiero, secondo Olivero Pistoletto, potrebbe essere l’unificazione dei parchi Gran Bosco e Orsiera Rocciavré (oltre che i parchi della Val Troncea e dei Laghi di Avigliana) in un unico parco delle Alpi Cozie, di cui si è parlato negli ultimi tempi. In questo modo il sentiero potrebbe avere meno divisioni a livello di gestione amministrativa. Ma, secondo Giuliano, l’unificazione dei parchi “Sembrava una cosa imminente, poi, dopo il cambio di amministrazione regionale la cosa non sembra più prioritaria, ma non si sa ancora nulla di ufficiale. I parchi hanno problemi molto diversi tra loro, un ente così grande e così diviso territorialmente sarebbe difficile da amministrare.”

Speriamo comunque che vengano presto promosse iniziative per salvare questo sentiero così ricco di storia e di natura, che potrebbe tornare ad essere uno dei fiori all’occhiello della Val di Susa.

Da un articolo scritto da Jenny Cuk (alias Jenny Ponzo) e pubblicato su Luna Nuova, n. 33, anno 2010
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[OltreRocciamelone] - Murales & Co.

Bussoleno (To), Via Cesare Battisti

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[OltreRocciamelone] - La stagione 2010/2011 dell'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai

Foto da regione.piemonte.it
24 concerti animeranno i "Nove mesi in crescendo" della stagione 2010/2011 dell'Orchestra Sinfonica Nazionale Rai, presentata il 10 maggio presso l'Auditorium Rai di Torino.
Per ascoltare le dichiarazioni che Maurizio Braccialarghe, responsabile del Centro di Produzione Rai di Torino e Cesare Mazzonis, direttore artistico dell'Orhcestra Sinfonica, hanno rilasciato a OltreRocciamelone, clicca [qui]. 

Ecco le informazioni principali relative alla stagione:
"Si inaugura giovedì 7 e venerdì 8 ottobre 2010 con un concerto affidato al nuovo Direttore principale, Juraj Valcuha, che dirige otto concerti nel corso della stagione e che nel primo propone Preludio e Morte di Isotta, da Tristano e Isotta di Wagner, e la Quinta sinfonia di Malher. Si chiude giovedì 26 e venerdì 27 maggio 2011 con Seymon Bychkov sul podio e un'altra sinfonia di Malher, la Sesta."
A Malher saranno dedicati ben 5 concerti, dal momento che il 2010 segna il 150° della sua nascita e il 2011 il 100° della sua morte.

La presenza del direttore Valcuha, nato nel 1976 a Bratislava, contribuirà ad imprimere alla stagione un carattere vitale e giovanile. Molti poi i grandi nomi che animeranno questi eventi di sopraffina musica classica: per fare solo qualche esempio, i pianisti Sermet, Albanese, Toradze, le voci Monica Bacelli e Teresa Romano, i direttori Dèneve, Sado e Ferro...
L'orchestra parteciperà anche a vari eventi di portata nazionale, tra cui il Prix Italia che si terrà a Torino e l'opera Rigoletto in diretta televisiva da Mantova (settembre 2010).
Un'altra interessante iniziativa sarà il concerto del 19 novembre 2010, fuori abbonameno, in cui l'Orchestra presenterà la prima esecuzione assoluta di un brano di Franck Martin, e la sua musica sarà accompagnata e mixata dai dj dell'associazione culturale Situazione Xplosiva. La serata fa parte del festival Club to club e della rassegna Contemporary, dedicata alle arti contemporanee.
Il 18 maggio si apre la campagna abbonamenti. I concerti si potranno seguire, oltre che su Radio 3, anche via web, sul sito dell'orchestra sinfonica. Per ulteriori informazioni: OrchestraSinfonica.Rai.it [qui], AmiciOsnRai.it [qui]
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[OltreRocciamelone] Mater Dea: Il Rock Celtico di Torino

MaterDea è una band torinese che suona “rock celtico”.
Composta da sei membri, è stata fondata pochi anni fa da Marco Strega, chitarrista rock, e da Simon Papa, cantante che viene dalla musica brasiliana d’autore.
Marco e Simon si sono incontrati mentre lavoravano alla produzione di una colonna sonora e, pur avendo background tanto diversi, si sono uniti in nome di un progetto comune che oggi sta riscuotendo successo sia in rete, sia nel mondo musicale piemontese, sia all’estero.
Marco spiega a OltreRocciamelone: “La nostra musica ha due matrici. La prima è la musica celtica e la seconda è il rock. Nelle nostre canzoni si trovano le ritmiche forti del rock progressive, del rock “tosto” anni 70-80. L’idea è quella di miscelare questi ritmi forti del rock con la voce angelica di Simon”.
Abbiamo cominciato a fare musica celtica quasi senza saperlo” aggiunge Simon “Abbiamo scritto dei testi, che sono risultati essere molto vicini alla cultura celtica”.

I testi delle loro canzoni, infatti, sono popolati da creature meravigliose, fate e fauni che ricordano la mitologia celtica. Un’altra protagonista della musica dei Mater Dea è una natura viva, vibrante e arcadica, evocata dalle parole, dal rumore della pioggia, dalle atmosfere sognanti di canzoni che alludono ad un rapporto più vicino, schietto e diretto con una Madre Terra minacciata dal mondo di oggi.
Ciò si ricollega al nome del gruppo, che richiama l’antico culto della Grande Madre. Secondo molte teorie, in un tempo lontano, preistorico, prosperava nel mondo un culto dedicato a una divinità femminile. In quei tempi non c’era discriminazione di genere o di razza. Uomini, donne e popoli vivevano in pace, a contatto con la natura, e non conoscevano la guerra. Ogni individuo viveva in un tutto armonico, ognuno era uno, ma era anche parte di un tutto, e il tutto era più della semplice somma delle sue parti. [Per approfondire, alcune letture: Riane Eisler, Il calice e la spada; Frank Capra, Il punto di svolta]. Il gruppo si ispira proprio a questo punto di vista, che si può definire olistico.

E’ da poco uscito il primo album dei Mater Dea, “Below the Mists, Above the Brambles”.
La dolcezza della musica celtica, l’atmosfera circonfusa dalla delicatezza vibrante del violino e la forza del rock, della chitarra acustica e della batteria si uniscono per dare vita a danze mitologiche, invocazioni, sogni, sentimenti.
Una musica da ascoltare ad occhi chiusi, per un viaggio in un mondo antico e moderno allo stesso tempo, un mondo fantastico, il sogno di quello che avrebbe potuto essere ma che forse, un giorno, sarà...

Il prossimo concerto dei Mater Dea si terrà il 22 maggio alla Cavallerizza, via Verdi 9, Torino, h.21:00.

Per ascoltare la musica dei Mater Dea e per ulteriori informazioni clicca su MaterDea.com [qui] e su MySpace.com/MaterDea [qui]


[OltreRocciamelone] - Jessica Carroll: sculture che nuotano, volano, cantano ...

Visitare la mostra di Jessica Carroll significa partecipare ad uno sguardo profondo che coglie l’essenza del marmo, dei minerali e dei metalli, la magia della vita delle api, l’impalpabilità degli animali acquatici e la vivacità degli uccelli. Significa osservare al microscopio la perfezione degli insetti e contemplare con un cannocchiale l’immensità del desiderio e del sogno. Significa riflettere sul paradosso dei rapporti tra le creature viventi, sempre sospeso tra opacità e trasparenza e rimettere in discussione il ruolo dell’uomo in questo nostro meraviglioso mondo.

La mostra non è antologica, ma costituisce un compendio della produzione di questa straordinaria artista torinese di adozione.

Si può visitare in Piazza Cavour 12, a Torino. Rimarrà aperta fino al 9 maggio. L’ingresso è libero e gratuito. L’organizzazione della mostra è stata curata dall’Associazione Golf Art, in particolare da Pegi Limone, con il sostegno della Regione Piemonte.

Jessica Carroll ci racconta la sua arte e la sua storia
- Breve estratto dell'intervista audio disponibile in fondo articolo -

Si può dire che la mostra sia organizzata attorno ad alcuni cicli ?

Sì, qualche modo sì. Anch’io ho dovuto scoprire che ci sono stati dei temi dominanti, che sono cominciati ad emergere, per esempio, già in "Il Sottobosco" [qui], del 1988, il mio primo lavoro professionale. Lì si vede che in primo piano c’è un'ape [qui]. Poi il lavoro sulle api è diventato principe nel 1997, quando ho cominciato a fare scultura: il primo alveare di bronzo l’ho fatto nel 1997, cioè quasi 10 anni dopo quell’ape, poi nel corso del tempo ho continuato a fare le api in tutti i modi.

Cosa simboleggiano le api?

Non è una scelta basata sul piano simbolico. Il lavoro di un artista visuale, perlomeno sicuramente il mio, [può essere paragonato al] mondo onirico, nel quale ci sono dei temi, dei simboli che nel corso del tempo seguono storie parallele, vengono fuori e seguono una loro storia. Però non ho mai deciso che quello è un simbolo e che quindi io lo uso per esprimere determinate cose.

Quindi anche la scelta frequente della forma sferica è per un motivo plastico più che simbolico...


Assolutamente sì. L’ispirazione in genere avviene o attraverso la materia oppure attraverso delle immagini.

Parliamo della materia. Le sue opere danno prova di una grande versatilità nell’uso dei materiali. Prima di tutto nell’uso di tanti materiali diversi, e poi nel modo di trattare i materiali. A volte il marmo viene plasmato e lavorato con maestria per creare opere fortemente mimetiche, come il “Microscopio”, mentre altre viene lasciata la materia grezza, quasi per far sentire la bellezza della materia pura...


Nel caso del "MIcroscopio" [qui], ho voluto fare un microscopio di marmo, quindi la scelta del materiale, in quel caso, è stata di farlo scuro, ma non del tutto nero. La scelta del materiale è stata più che altro plastica, perchè il Nero Marquinia di cui è fatto il microscopio è un materiale resistente, e l’onice semplicemente perchè è bianco. È stata una scelta abbastanza empirica. Così come per il cannocchiale: volevo che fosse un cannocchiale trasparente. E volevo che avesse le ditate del modellato: ho penato per circa un anno e mezzo prima di riuscire a trovare il materiale giusto, che è una resina poliuretanica importata dagli Stati Uniti.

In questa mostra troviamo un microscopio puntato su un’ape, quindi un mondo minuscolo osservato con attenzione. E troviamo un cannocchiale, quasi un invito a sognare le stelle. Quindi troviamo l’attenzione per il mondo minuscolo e per l’universo, l’immensità. Quindi pariamo di rapporto tra le dimensioni: tra il macro e il micro, tra l’interno e l’esterno, tra l’opacità e la trasparenza...

Mi ha rubato le parole di bocca, perchè in effetti c’è "Il sogno di Berny" [qui], che è nato così: io stavo facendo il cannocchiale, che si chiama "Desiderio" [qui]", nel senso delle stelle. Lo volevo trasparente proprio perchè guardasse lontano ma allo stesso tempo guardasse nella trasparenza. Quindi è una metafora del guardare anche nel corso del tempo, cioè guarda anche al passato, al ricordo e soprattutto al desiderio: la metafora del cannocchiale è basata sul fatto di sapere esattamente cosa si desidera. Volevo che fosse plasmato su una forma antica, per cui la canna del cannocchiale l’ho fatta col metodo preistorico del colombino. Ma è un metodo un po’ lungo e noioso. Mentre lavoravo, Berny [la mia cagnetta], se ne stava come sempre lì a dormire acciambellata (infatti il cane acciambellato è un altro dei temi che ritornano nel mio lavoro) e ogni tanto ne facevo una sagomina. Da questo è nato il lavoro del sogno di Berny, che è basato su un paio di teorie. Una è una teoria aborigena australiana, che sostiene che il mondo è formato dai sogni degli animali, che mi piace molto perchè c’è questa trasposizione in cui l’uomo diventa un po’ meno importante. Un’altra è una teoria di uno dei miei maestri Adolph Portman, un biologo morfologo che partecipava alle riunioni di Eranos, fondate da Yung in Svizzera. Nel libro “Le forme viventi”, Portman espone una teoria un po’ cosmogonica sull’evoluzione, secondo cui le prime creature viventi sulla Terra erano completamente trasparenti, perchè non avevano necessità di distinguere l’interno dall’esterno perchè, essendo pochissime, non entravano in relazione, non si incontravano. Man mano che la vita sulla Terra ha cominciato a svilupparsi, che le creature trasparenti hanno cominciato a diventare di più, hanno cominciato ad incontrarsi e nella necessità di relazione hanno dovuto differenziare l’interno dall’esterno, proteggere l’interno e le interiora, pensiamo a quei pesciolini abissali in cui si vede il cuore, i polmoni ecc. E un paradosso, un ossimoro, per cui per poter entrare in relazione si diventa meno trasparenti, ci si nasconde, anche se la relazione deve tendere alla trasparenza. E lì torna il lavoro al cannocchiale, perchè in fondo “Desiderio” è anche un desiderio di incontro.

Allora possiamo dire che opere come “Dig to the roots” o “Persephonia Viridis” sono una ricerca del cuore della materia, un portare alla luce ciò che c’è dentro?

In qualche modo, sì, soprattutto per quel che riguarda "Dig to the roots" [qui], una delle mie prime sculture. "Persephonia viridis" [qui] non so nemmeno bene io cosa sia. Mi hanno regalato due pezzi di malachite, ero indecisa se lavorare la malachite stessa, poi era talmente bella, intoccabile (anche perchè è velenosa nella lavorazione e occorrono strumenti da gioielliere), che ho deciso di inserirla in queste due colonne di marmo. Una volta fatta, ho deciso che poteva essere una pianta. Allora, come facevano gli esploratori, i naturalisti del ‘700, mi sono inventata il nome della pianta, “Persephonia Viridis”, per via del mito di Persefone e di Dioniso: c’è questo verde sommerso che poi riemerge, esattamente come il mito di Dioniso che è legato ai cicli della natura.

In una mostra dove i colori dominanti sono il bianco, il nero e il trasparente, spicca un angolo dove ci sono opere di colore verde. Il verde ha un significato particolare, magari legato alla natura?

In realtà legato alla natura ma in un senso molto sottile, per me ancora abbastanza inspiegabile. Non so perchè io sento così tanto il colore verde. Il “Pavimento verde pisello”, ad esempio, vuole essere un po’ un assurdo, [è nato da un progetto per] una mostra molto importante. Sant’Agostino, ripreso da un altro dei miei maestri, Meister Eckhart, un teologo tedesco, dice che “Sull’alto del monte, tutte le creature verdeggiano, perchè partecipano alla luce di Dio”... come se la luce di Dio fosse verde. È una cosa talmente risonante... talmente risonante con me, che sento così tanto il colore verde...Non dimentichiamoci che il mio secondo nome, Carroll, è il cognome di mezza Irlanda, quindi è possibile pure che questo sentimento per il verde sia legato alle origini.

Parliamo di “13 modi di guardare un merlo”...

"13 modi di guardare un merlo" [qui] è una scultura per cui ho impiegato circa 5 anni, perchè è ricavata da un blocco unico, e in origine informe, di Nero Belgio, che è uno dei miei materiali preferiti. È un materiale difficile, perchè è vetroso. Viene dal Belgio e viene da un ulteriore raffreddamento e schiacciamento del carbone. È abbastanza odiato da tutti i marmisti, perchè è difficile: quando lo lavori si scheggia, è poco plasmabile ( come invece il marquinia o lo statuario: non è un caso che Michelangelo usasse lo statuario...che è resistente e plasmabilissimo). Il Nero Belgio è molto poco elastico e quando lo lavori è alquanto deprimente: fa una polvere che puzza di zolfo, è un po’ unta, va dappertutto... un po’ come farsi un giro in miniera! È un lavoro ispirato a un poeta americano, Wallace Stevens, la cui poesia ha lo stesso titolo, "13 ways of looking at a blackbird" [qui]. Non si sa di cosa parli esattamente la poesia, ma sicuramente è una metafora delle infinite possibilità di percezione della realtà.

Allora è a questo che allude anche il rapporto tra la scultura e le rappresentazioni a china: arricchisce ulteriormente la rosa di possibilità di percezione e di espressione.

Assolutamente sì. Le chine sono nate a seguito della scultura. Dopo aver passato tanto tempo pensando e immaginando i merli mi sono accorta che riuscivo a farli molto bene a china anche con un solo gesto, quindi sono fatti con una tecnica un po’ orientale. I modi di vedere la realtà non sono 13 ma sono miliardi, quindi probabilmente di qui alla fine della mia vita continuerò a produrre miliardi di merli! Così come, non ancora risolto, ma legato alla percezione della realtà, che è il motivo trainante del mio lavoro, della mia ricerca, anche se in senso poetico, è “Ombre precise”: è sempre trasparente perchè voleva essere, e ancora non ci sono riuscita, un oggetto la cui ombra fosse un’altra cosa. Quindi, contemporaneamente alla ricerca della percezione, c’è la memoria...

Un’ultima domanda. Qual è stato il percorso umano e professionale che L’ha portata fin qui, in particolare a Torino?

Sicuramente qualcosa che dev’essere legato al destino, perchè io sono nata a Roma, mio padre è americano di origine scozzese e irlandese, mia madre è mezza toscana e mezza napoletana. Forse per via del mio passaporto americano, non mi sono mai sentita romana, cosa che mi ha permesso a un certo punto di abbandonare Roma. Ho cominciato a bazzicare Torino e il Piemonte moltissimi anni fa, proprio per via dell’amicizia con alcuni scienziati, naturalisti, ecc., del museo di Scienze Naturali. Con loro giravo in lungo e in largo il Piemonte. In particolare un ornitologo mi ha insegnato moltissime cose sugli uccelli e mi presentò un altro ornitologo apicoltore, quindi tutto nacque in Piemonte. Poi, nel 2000, ho conosciuto Aldo Mondino e ho vissuto con lui alla sua morte nel Monferrato. Dopo la sua morte - ormai Roma l’avevo lasciata alle spalle, i miei genitori vivono in Versilia, che è un po’ la mia unica radice – ho deciso di rimanere a Torino, abbastanza coraggiosamente, perchè ero praticamente vedova, a Torino non ho parenti, in più è una città duretta. Ma lavoravo con una galleria, quindi ho basato la scelta abbastanza sul lavoro, poi avevo una casetta alla Consolata. Ora ho un nuovo amore, che vive a Torino. Torino è la città che amo.. era destino, un’affinità elettiva.

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Per approfondire il tema, si puo consultare il sito web di Jessica Carroll [qui]


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