[OltreRocciamelone] - Jessica Carroll: sculture che nuotano, volano, cantano ...

Visitare la mostra di Jessica Carroll significa partecipare ad uno sguardo profondo che coglie l’essenza del marmo, dei minerali e dei metalli, la magia della vita delle api, l’impalpabilità degli animali acquatici e la vivacità degli uccelli. Significa osservare al microscopio la perfezione degli insetti e contemplare con un cannocchiale l’immensità del desiderio e del sogno. Significa riflettere sul paradosso dei rapporti tra le creature viventi, sempre sospeso tra opacità e trasparenza e rimettere in discussione il ruolo dell’uomo in questo nostro meraviglioso mondo.

La mostra non è antologica, ma costituisce un compendio della produzione di questa straordinaria artista torinese di adozione.

Si può visitare in Piazza Cavour 12, a Torino. Rimarrà aperta fino al 9 maggio. L’ingresso è libero e gratuito. L’organizzazione della mostra è stata curata dall’Associazione Golf Art, in particolare da Pegi Limone, con il sostegno della Regione Piemonte.

Jessica Carroll ci racconta la sua arte e la sua storia
- Breve estratto dell'intervista audio disponibile in fondo articolo -

Si può dire che la mostra sia organizzata attorno ad alcuni cicli ?

Sì, qualche modo sì. Anch’io ho dovuto scoprire che ci sono stati dei temi dominanti, che sono cominciati ad emergere, per esempio, già in "Il Sottobosco" [qui], del 1988, il mio primo lavoro professionale. Lì si vede che in primo piano c’è un'ape [qui]. Poi il lavoro sulle api è diventato principe nel 1997, quando ho cominciato a fare scultura: il primo alveare di bronzo l’ho fatto nel 1997, cioè quasi 10 anni dopo quell’ape, poi nel corso del tempo ho continuato a fare le api in tutti i modi.

Cosa simboleggiano le api?

Non è una scelta basata sul piano simbolico. Il lavoro di un artista visuale, perlomeno sicuramente il mio, [può essere paragonato al] mondo onirico, nel quale ci sono dei temi, dei simboli che nel corso del tempo seguono storie parallele, vengono fuori e seguono una loro storia. Però non ho mai deciso che quello è un simbolo e che quindi io lo uso per esprimere determinate cose.

Quindi anche la scelta frequente della forma sferica è per un motivo plastico più che simbolico...


Assolutamente sì. L’ispirazione in genere avviene o attraverso la materia oppure attraverso delle immagini.

Parliamo della materia. Le sue opere danno prova di una grande versatilità nell’uso dei materiali. Prima di tutto nell’uso di tanti materiali diversi, e poi nel modo di trattare i materiali. A volte il marmo viene plasmato e lavorato con maestria per creare opere fortemente mimetiche, come il “Microscopio”, mentre altre viene lasciata la materia grezza, quasi per far sentire la bellezza della materia pura...


Nel caso del "MIcroscopio" [qui], ho voluto fare un microscopio di marmo, quindi la scelta del materiale, in quel caso, è stata di farlo scuro, ma non del tutto nero. La scelta del materiale è stata più che altro plastica, perchè il Nero Marquinia di cui è fatto il microscopio è un materiale resistente, e l’onice semplicemente perchè è bianco. È stata una scelta abbastanza empirica. Così come per il cannocchiale: volevo che fosse un cannocchiale trasparente. E volevo che avesse le ditate del modellato: ho penato per circa un anno e mezzo prima di riuscire a trovare il materiale giusto, che è una resina poliuretanica importata dagli Stati Uniti.

In questa mostra troviamo un microscopio puntato su un’ape, quindi un mondo minuscolo osservato con attenzione. E troviamo un cannocchiale, quasi un invito a sognare le stelle. Quindi troviamo l’attenzione per il mondo minuscolo e per l’universo, l’immensità. Quindi pariamo di rapporto tra le dimensioni: tra il macro e il micro, tra l’interno e l’esterno, tra l’opacità e la trasparenza...

Mi ha rubato le parole di bocca, perchè in effetti c’è "Il sogno di Berny" [qui], che è nato così: io stavo facendo il cannocchiale, che si chiama "Desiderio" [qui]", nel senso delle stelle. Lo volevo trasparente proprio perchè guardasse lontano ma allo stesso tempo guardasse nella trasparenza. Quindi è una metafora del guardare anche nel corso del tempo, cioè guarda anche al passato, al ricordo e soprattutto al desiderio: la metafora del cannocchiale è basata sul fatto di sapere esattamente cosa si desidera. Volevo che fosse plasmato su una forma antica, per cui la canna del cannocchiale l’ho fatta col metodo preistorico del colombino. Ma è un metodo un po’ lungo e noioso. Mentre lavoravo, Berny [la mia cagnetta], se ne stava come sempre lì a dormire acciambellata (infatti il cane acciambellato è un altro dei temi che ritornano nel mio lavoro) e ogni tanto ne facevo una sagomina. Da questo è nato il lavoro del sogno di Berny, che è basato su un paio di teorie. Una è una teoria aborigena australiana, che sostiene che il mondo è formato dai sogni degli animali, che mi piace molto perchè c’è questa trasposizione in cui l’uomo diventa un po’ meno importante. Un’altra è una teoria di uno dei miei maestri Adolph Portman, un biologo morfologo che partecipava alle riunioni di Eranos, fondate da Yung in Svizzera. Nel libro “Le forme viventi”, Portman espone una teoria un po’ cosmogonica sull’evoluzione, secondo cui le prime creature viventi sulla Terra erano completamente trasparenti, perchè non avevano necessità di distinguere l’interno dall’esterno perchè, essendo pochissime, non entravano in relazione, non si incontravano. Man mano che la vita sulla Terra ha cominciato a svilupparsi, che le creature trasparenti hanno cominciato a diventare di più, hanno cominciato ad incontrarsi e nella necessità di relazione hanno dovuto differenziare l’interno dall’esterno, proteggere l’interno e le interiora, pensiamo a quei pesciolini abissali in cui si vede il cuore, i polmoni ecc. E un paradosso, un ossimoro, per cui per poter entrare in relazione si diventa meno trasparenti, ci si nasconde, anche se la relazione deve tendere alla trasparenza. E lì torna il lavoro al cannocchiale, perchè in fondo “Desiderio” è anche un desiderio di incontro.

Allora possiamo dire che opere come “Dig to the roots” o “Persephonia Viridis” sono una ricerca del cuore della materia, un portare alla luce ciò che c’è dentro?

In qualche modo, sì, soprattutto per quel che riguarda "Dig to the roots" [qui], una delle mie prime sculture. "Persephonia viridis" [qui] non so nemmeno bene io cosa sia. Mi hanno regalato due pezzi di malachite, ero indecisa se lavorare la malachite stessa, poi era talmente bella, intoccabile (anche perchè è velenosa nella lavorazione e occorrono strumenti da gioielliere), che ho deciso di inserirla in queste due colonne di marmo. Una volta fatta, ho deciso che poteva essere una pianta. Allora, come facevano gli esploratori, i naturalisti del ‘700, mi sono inventata il nome della pianta, “Persephonia Viridis”, per via del mito di Persefone e di Dioniso: c’è questo verde sommerso che poi riemerge, esattamente come il mito di Dioniso che è legato ai cicli della natura.

In una mostra dove i colori dominanti sono il bianco, il nero e il trasparente, spicca un angolo dove ci sono opere di colore verde. Il verde ha un significato particolare, magari legato alla natura?

In realtà legato alla natura ma in un senso molto sottile, per me ancora abbastanza inspiegabile. Non so perchè io sento così tanto il colore verde. Il “Pavimento verde pisello”, ad esempio, vuole essere un po’ un assurdo, [è nato da un progetto per] una mostra molto importante. Sant’Agostino, ripreso da un altro dei miei maestri, Meister Eckhart, un teologo tedesco, dice che “Sull’alto del monte, tutte le creature verdeggiano, perchè partecipano alla luce di Dio”... come se la luce di Dio fosse verde. È una cosa talmente risonante... talmente risonante con me, che sento così tanto il colore verde...Non dimentichiamoci che il mio secondo nome, Carroll, è il cognome di mezza Irlanda, quindi è possibile pure che questo sentimento per il verde sia legato alle origini.

Parliamo di “13 modi di guardare un merlo”...

"13 modi di guardare un merlo" [qui] è una scultura per cui ho impiegato circa 5 anni, perchè è ricavata da un blocco unico, e in origine informe, di Nero Belgio, che è uno dei miei materiali preferiti. È un materiale difficile, perchè è vetroso. Viene dal Belgio e viene da un ulteriore raffreddamento e schiacciamento del carbone. È abbastanza odiato da tutti i marmisti, perchè è difficile: quando lo lavori si scheggia, è poco plasmabile ( come invece il marquinia o lo statuario: non è un caso che Michelangelo usasse lo statuario...che è resistente e plasmabilissimo). Il Nero Belgio è molto poco elastico e quando lo lavori è alquanto deprimente: fa una polvere che puzza di zolfo, è un po’ unta, va dappertutto... un po’ come farsi un giro in miniera! È un lavoro ispirato a un poeta americano, Wallace Stevens, la cui poesia ha lo stesso titolo, "13 ways of looking at a blackbird" [qui]. Non si sa di cosa parli esattamente la poesia, ma sicuramente è una metafora delle infinite possibilità di percezione della realtà.

Allora è a questo che allude anche il rapporto tra la scultura e le rappresentazioni a china: arricchisce ulteriormente la rosa di possibilità di percezione e di espressione.

Assolutamente sì. Le chine sono nate a seguito della scultura. Dopo aver passato tanto tempo pensando e immaginando i merli mi sono accorta che riuscivo a farli molto bene a china anche con un solo gesto, quindi sono fatti con una tecnica un po’ orientale. I modi di vedere la realtà non sono 13 ma sono miliardi, quindi probabilmente di qui alla fine della mia vita continuerò a produrre miliardi di merli! Così come, non ancora risolto, ma legato alla percezione della realtà, che è il motivo trainante del mio lavoro, della mia ricerca, anche se in senso poetico, è “Ombre precise”: è sempre trasparente perchè voleva essere, e ancora non ci sono riuscita, un oggetto la cui ombra fosse un’altra cosa. Quindi, contemporaneamente alla ricerca della percezione, c’è la memoria...

Un’ultima domanda. Qual è stato il percorso umano e professionale che L’ha portata fin qui, in particolare a Torino?

Sicuramente qualcosa che dev’essere legato al destino, perchè io sono nata a Roma, mio padre è americano di origine scozzese e irlandese, mia madre è mezza toscana e mezza napoletana. Forse per via del mio passaporto americano, non mi sono mai sentita romana, cosa che mi ha permesso a un certo punto di abbandonare Roma. Ho cominciato a bazzicare Torino e il Piemonte moltissimi anni fa, proprio per via dell’amicizia con alcuni scienziati, naturalisti, ecc., del museo di Scienze Naturali. Con loro giravo in lungo e in largo il Piemonte. In particolare un ornitologo mi ha insegnato moltissime cose sugli uccelli e mi presentò un altro ornitologo apicoltore, quindi tutto nacque in Piemonte. Poi, nel 2000, ho conosciuto Aldo Mondino e ho vissuto con lui alla sua morte nel Monferrato. Dopo la sua morte - ormai Roma l’avevo lasciata alle spalle, i miei genitori vivono in Versilia, che è un po’ la mia unica radice – ho deciso di rimanere a Torino, abbastanza coraggiosamente, perchè ero praticamente vedova, a Torino non ho parenti, in più è una città duretta. Ma lavoravo con una galleria, quindi ho basato la scelta abbastanza sul lavoro, poi avevo una casetta alla Consolata. Ora ho un nuovo amore, che vive a Torino. Torino è la città che amo.. era destino, un’affinità elettiva.

Cliccare sul player per ascoltare l'audio della versione integrale dell'intervista anche disponibile su Archive.org [qui]






Per approfondire il tema, si puo consultare il sito web di Jessica Carroll [qui]


Guarda le opere di Jessica Carroll sul nostro album ORflickr [qui]

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